La guerra

Rievocare i tristi episodi bellici che abbiamo ultimamente vissuto può sem­brare fatica vana. Tale però non sarà giudicata dai posteri se avranno la pa­zienza di leggere queste carte.

Quando nel 1941 sentimmo tuonare il cannone la maggior parte di noi era ancora ignara di ogni esperienza bellica.

Forse i nostri antichi padri, tanti e tanti secoli fa, avranno visto con rammarico, eserciti nemici e alleati scorazzare per le nostre ubertose colline ovunque por­tando rovina e distruzione.

Erano gli arabi che sbarcavano repen­tinamente a compiere piratesche ruberie e il popolo di Centaura si rifugiava nelle torri merlate e negli antichi manieri.

Intanto fioriva la repubblica genovese e il nostro popolo prese parte a vicende amiche ed avverse nei riguardi della potente vicina. Nei secoli successivi si ebbero una serie indeterminata di guerre che certamente avranno lasciato un triste retaggio in mezzo al nostro popolo

Negli ultimi anni però si erano avute soltanto guerre di posizione, a cui ave­vano partecipato tanti figli della nostra terra: ma la massa del nostro popolo era vissuta lungi dalla guerra, partecipe soltanto all’ unanime compianto per i caduti.

Nell’ ultima. guerra mondiale tutti pos­siamo affermare d’aver vissuto il pau­roso dramma.

Ricordiamo i bombardamenti, le mi­nacce, i rastrellamenti, i ricatti; ricor­diamo sopra tutto quella psicosi di paura

e di ossessione che era subentrata in noi tutti.

Ma soprattutto un triste episodio merita una menzione tutta speciale..

Si era ormai al declino e sembrava che presto sarebbe ritornata la pace; al contrario si apprestavano per il nostro popolo giorni assai duri. Sopraggiunse improvvisamente l’ordine di sfollare. Dove?

La domanda non retorica, ma fatidica assillò in quei giorni le nostre menti.

Si presentavano due soluzioni: o scen­dere in città ove imperversavano i bom­bardamenti, o salire sui monti ove infu­riava una guerra crudele tra figli della stessa terra.

I più scelsero la via della città.

La tragedia di quei giorni fu vissuta con fortezza d’animo dal nostro popolo, ma lasciò in noi un ricordo indelebile.

Vorrei essere pittore e dipingere la varietà di quadri che la nostra carroz­zabile presentava: era tutto un formi­colio di persone affaticate a portare in salvo le loro masserizie con i mezzi più disparati; era un vano intrecciarsi d’imprecazioni e di lamenti.

Vorrei poter esprimere i sentimenti più intimi che nutrivano i nostri conta­dini nel mentre volgevano un mesto sguardo d’addio alla natia casetta che si stagliava ancora una volta nel verde cupo degli ulivi. Vedevano, infrangersi le speranze più care, le illusioni perenni che per tanti anni avevano nutrite nel segreto del cuore.

E dietro di loro lenti e fedeli proce­devano i greggi, succubi essi pure ad una volontà maligna e perversa.

Mi torna alla memoria una massima che Alessandro Manzoni pone nel suo romanzo, quale chiosa ad «Addio monti »:

«Dio non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa ed una più grande»,

Soltanto un briciolo di fede nella Divina Provvidenza poteva darci in quei tristi giorni la forza necessaria.

Anche la nostra Chiesa restò chiusa e si celebrò la Messa in una squallida ed umida cava di ardesie.

Là, sotterra, nel buio squallore della pietra, ripensavamo ai primi cristiani delle catacombe e di fronte ad essi ci senti­vamo in posizione di privilegio. Intorno aleggiavano gli spiriti dei nostri padri e dei nostri antenati.

Là avevano lavorato per tutta una vita lunga e impossibile, là forse erano morti, ma avevano costruito una chiesa alla luce del sole, bella, decorosa: un destino infame impediva ai loro discendenti di servirsene.

Sotterra ci sentivamo più vicini ad essi in una dolce comunione di spiriti.

Intanto gli eventi precipitavano: vivem­mo tra ansie e indicibili tormenti gli ultimi giorni di guerra. Poi finalmente potemmo ritornare alle nostre case: le ritrovammo intatte.

Vennero intanto giorni migliori. Il cielo si rischiarò e il sole primaverile, foriero di pace, tornò a risplendere.

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